Un antico proverbio milanese recita che
“Festa l’è a Pasqua, a Natal e quant semasa el nimal”,
festa è a Natale, a Pasqua e quando si ammazza il maiale, definito l’Animale per eccellenza. Sinonimo per noi di sporcizia secondo vari punti di vista, il maiale era invece una vera benedizione per la magra dieta dei secoli passati, caratterizzata dall’ossessiva ripetizione, principalmente, di pane, polenta e verdura. La carne, come è noto, compariva dirado sulle tavole comuni e comunque un problema era rappresentato dalla sua conservazione, difficile senza frigorifero. La carnesuina, potendosi insaccare, superava l’inconveniente e garantiva un consumo dilazionato nel tempo, ovviamente con estrema parsimonia.
Ogni famiglia di salariati che potesse permetterselo aveva diritto di far ingrassare un purscell.
L’operazione terminava agliinizi di dicembre, quando suonava la sua ultima ora. Al mattino presto veniva messa a bollire l’acqua; entrava poi nella corte uno specialista, el mazzoeu, che con gli uomini spingeva fuori dallo stabiell (il porcile) la bestia ignara che tuttavia, a detta di chi ha partecipato in anni ormai lontani a simili esecuzioni, ben presto si accorgeva che c’era qualcosa che non andava. Iniziava così a correre qua e là e prontamente veniva bloccata a terra, per permettere al mazzoeu di assestarle appunto un paio di mazzate sulla testa per tramortirla. A questo punto veniva il momento più truculento della procedura: il porcello, amato e vezzeggiato in vita, veniva legato su un tavolaccio e sgozzato. Il sangue veniva raccolto religiosamente per confezionare il mazzapan, insieme con strutto, mollica di pane e chiodi di garofano. Quindi, con l’acqua bollente e un coltello, si staccavano le setole, facendo attenzione a non rovinare il lardo sottostante; il tavolaccio veniva poi issato in piedi per squartare la bestia ormai defunta e la lavorazione delle singole parti proseguiva in casa.
Alla sera si avevano così tanti bei salamini di varie fogge e nomi, pronti per essere taccà su oppure conservati nell’ula (olla, un recipiente a pancia grossa) ricoperti di grasso fuso.
C’erano però dei pezzi che avanzavano: parti di testa, i piedi (pescitt), eccetera. La sapienza delle antiche regiure inventò per questi la cassoeula o cazzoeula (sono semplici varianti di pronuncia), da preparare alla sera per far festa con la famiglia e con chi aveva aiutato nel lavoro.
Diper sè, il piatto è semplice: pezzi di maiale e verze insieme con gli ovvi condimenti, accompagnati dalla polenta (sulla cui storia si potrebbe scrivere un libro, magari a partire dal detto, solo apparentemente positivo, “la pulenta la cuntenta”) e innaffiati di vino. Verze che sono una delle parti più importanti del piatto e vera gloria della terra milanese, tanto che i Francesi lechiamavano les choux de Milan, i cavoli di Milano.
Secondo le fonti le costine comparvero più tardi, trattandosi di carne già più nobile; ma la cassoeula restava un piatto contadino, per via della preparazione povera, ma anche, dice qualcuno, per l’odore poco gradevole delle verze, “che spussen prima... e dopu...”.
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