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      Nel settembre 1879, la Commissione conservatrice dei monumenti, oggetti d’arte e antichità della provincia di Milano si accorse dell’esistenza dell’oratorio di San Giovanni Battista a Cascine Olona. I professori e gentiluomini milanesi che la componevano, infatti, erano stati messi a conoscenza che il progetto del Gamba de Legn, il tramway che da Milano doveva raggiungere Magentino, prevedeva l’atterramento del piccolo edificio sacro.

  La commissione incaricò del sopralluogo il professor Giuseppe Mongeri, grande conoscitore ed estimatore delle vestigia storiche ed architettoniche della “provincia” il quale, giunto con alcuni colleghi presso la chiesetta, potè constatare che l’edificio, fortunatamente, era in buone condizioni complessive.

  Aperta la porta, spesso serrata, quei signori ben vestiti restarono stupiti di fronte a quello che videro: splendide pitture quattrocentesche, qua e là rovinate, ma nel complesso integre, avvolte comunque in un’atmosfera fuori dal tempo, che parevano chiedere a gran voce aria aperta, visitatori in cui suscitare ammirazione, fedeli da accompagnare nella meditazione.

  Si sarebbe compiuto un gravissimo errore se non si fosse imposto al Progresso di spostare la sua marcia inarrestabile appena di qualche metro più in là.

  Per la cronaca, l’inarrestabile marcia del Gamba de Legn procedeva ad una velocità massima di 15 km all’ora.

  La relazione di Mongeri fece il suo effetto: l’oratorio fu dichiarato monumento nazionale e salvato dai binari, mentre il sindaco di Settimo, l’avvocato Filippo Sessa, ottenne un encomio per il suo fattivo intervento nella vicenda.

  La storia dell’oratorio, tuttavia, era iniziata molto tempo prima di quegli anni, come ebbero modo di constatare i commissari già ricordati leggendo la lapide a destra dell’ingresso alla cappella, il cui testo in latino suona così: “Questa chiesa fu edificata e consacrata per opera del signor Paolo Mantegazza ad onore di San Giovanni Battista nell’anno 1468”.

  La datazione della cappella è affermata anche nella descrizione datane da Massimo Fabi alla metà di quel secolo, correggendo l’errata lettura del dotto parroco di Vittuone Carlo Annoni: “Poco lontano (da Settimo) trovi Cassina Olona, gruppo di case con una chiesuola, che il prevosto Annoni vorrebbe del secoloXIII. L’esame del piccolo marmo che vi si trova, ci autorizza ad attribuirla al secolo XV: oltre che in molti affreschi, raffiguranti le azioni del Battista, un Giudizio Universale, l’Annunciazione della Vergine, per crederli della scuola di Giotto sono troppo ben disegnati, e non esitiamo a riportarli a quella del Foppa o del Civerchio. Meriterebbero di essere ristaurati, giacchè presentano una serie di costumi di què tempi, e dir si possono uno dei più bei documenti dell’arte lombarda nei dintorni di Milano”.

  Non era scontato insistere sul pregio e sull’interesse dell’insieme architettonico e pittorico della nostra chiesetta. Nei quattro secoli precedenti, infatti, tutte le fonti (ecclesiastiche, che sono pressochè le uniche) che trattano del nostro edificio non si sbottonano a dar giudizi estetici, tranne un ignoto collaboratore di San Carlo Borromeo il quale, descrivendo gli edifici ecclesiastici di Settimo e dintorni, si lasciò andare in un essenziale, ma efficace “In le Cassine d’Arona ui è una chiesa picola, ma assai bella”.

  La forma curiosa del nome della frazione risentì probabilmente del modo in cui esso veniva pronunciato dai contadini, allora come oggi: Cassìn d’Urona.

  Ma lo scriba carolino osservò che l’Olona, in quanto fiume, non era (più) visibile in loco e, compiendo quello che il filologia si definisce un ipercorrettismo, produsse quella forma bizzarra. La frazione, la cui prima attestazione finora reperita risale al 1280, doveva essere sorta appunto, a fine Duecento, alla comunità del luogo e a quelle di Settimo e Vighignolo. Dal punto di vista ecclesiastico, la località apparteneva alla veneranda parrocchia di Santa Margherita. Nel 1468, tuttavia, si ebbe una svolta. Pochi anni prima Zanino Meraviglia, massimo proprietario di Vighignolo, aveva ricostruito la parrocchiale di San Sebastiano ed edificato ex novo la chiesa di Santa Maria Nascente, ponendo entrambe sotto il patronato della propria famiglia. Forse per eguagliare il prestigio dimostrato ed ottenuto da Zanino, oltre che per garantire un comodo servizio religiosoper sé e i propri vilici nel luogo in cui abitava sempre o in parte dell’anno, Paolo Mantegazza fece costruire il nostro oratorio.

   E volle fare di più: volle la sua chiesa, pure più piccola, all’ultimo grido, edificandola secondo le linee lombardo-toscaneggianti espresse nella coeva chiesa di San Cristoforo sul Naviglio Grande e facendola interamente affrescare.

  Alcuni studiosi addirittura fanno grossi nomi per quanto riguarda l’aspetto architettonico della cappella, ossia quello del Solari, famiglia di artisti che dettava legge nella Milano sforzesca.

  Il Mantegazza poteva permettersi questa affermazione di prestigio e munificenza. Signori nei diversi rami in cui si articolavano, di grossi beni a Ovest di Milano, erano presenti da secoli a Settimo: nel 1459 Galeazzo Mantegazza affermava che in Santa Margherita era sepolta la maggior parte dei suoi antenati, tra i quali forse c’era quel Martino Mantegazza che nel 1382 troviamo rector della chiesa settimese.

  Lo stesso Paolo manteneva stretti rapporti con la parrocchia: nel 1464 il curato Francesco Spanzotta gli diede in affitto settanta pertiche di terra del beneficio, site attorno a Cascine Olona, dove verosimilmente si concentrava il nucleo dei possessi settimesi della famiglia. I rapporti tra quest’ultima e la parrocchia paiono dunque abbastanza intensi; non tanto, però, da permetterle di competere con i Balbi e soprattutto con i loro successori, i D’Adda, giunti in Settimo tra il Quattrocento e il Cinquecento e pronti a fagocitare le proprietà minori, fossero o no in crisi. Ed è un fatto che le circa 630 pertiche possedute dalla famiglia Mantegazza a metà Cinquecento scompaiano decenni più tardi.

  Apparteneva in particolare a Paolo Mantegazza (e cent’anni dopo al suo discendente Fabrizio) la casa a fianco della quale fu costruita la cappella, nella quale fu praticata una porta che permetteva ai padroni di entrare in chiesa senza mischiarsi con i villani. La porta esiste tutt’oggi e si distingue anche dal rilievo della chiesa che fu realizzato intorno al 1570, in occasione delle visite di San Carlo Borromeo e dei suoi collaboratori.

  Il confronto tra il rilievo cinquecentesco e lo stato attuale del fabbricato mostra che esso non ha subito alterazioni significative, tranne l’eliminazione dei pilastrini esterni che delimitavano un “sagrato”. Parimenti, ma questo in tempi recenti, la riforma liturgica ha prodotto l’eliminazione dell’altare a muro.

  Allo stesso modo già San Carlo aveva ordinato di eliminare i due altarini che erano stati posizionati ai lati dell'apertura del presbiterio, il cui collocamento e rimozione produssero i danni alle pitture in quei punti.

  Proprio queste ultime sono l’attrattiva dell’oratorio, e di esse finalmente converrà parlare.

  Massimo Fabi proponeva, abbiamo visto, di attribuirle alla scuola di Vincenzo Foppa o del Civerchio; altre voci, addirittura, le collegavano alle Storie di San Giovanni Battista dipinte da Masolino da Panicale a Castiglione Olona. Ma C. Fumagalli, Luca Beltrami (quello che ricostruì la torre del Filarete al Castello Sforzesco) e Diego Sant’Ambrogio, in un’opera del 1891, rimasero con i piedi per terra.

  Essi, e forse in particolare il Sant’Ambrogio che in quello stesso periodo stava studiandi il Trittico di Vighignolo, proposero di attribuire gli affreschi proprio all’autore delle pitture di San Cristoforo, accentuando così la parentela, già architettonica, tra le due chiese. Anche i nostri affreschi, allora, sarebbero opera di Bassanolus de Coaretiis. E chi era costui? Non certo un grandissimo maestro; era però un onesto pittore, che pur esprimendo un “colorito (…) che difetta d’ogni trasparenza”, e dipingendo i fondali che “riesconomonotoni e pesanti”, ha lasciato con vivacità, e in casa nostra, un interessante e gradevole ciclo pittorico quattrocentesco.

  Il tradizionale schema di lettura degli affreschi, pubblicato sul libro “Al settimo miglio”, risale alla proposta di Diego Sant’Ambrogio, conservata manoscritta nell’Archivio Comunale; la tabella che si propone oggi rispecchia le illuminanti osservazioni e correzioni fatte recentemente dal cesanese prof. Ballarini.

  Seguendo il dettaglio evangelico, la storia del precursore inizia con la vicenda di suo padre, il sacerdote Zaccaria (quadro 1). Zaccaria stava offrendo incenso nel tempio: “Tutta l’assemblea del popolo pregava fuori nell’ora dell’incenso” (Luca 1,8-11). L’angelo annunciò a Zaccaria che le sue preghiere erano state ascoltate: gli sarebbe nato un bambini, il cui nome doveva essere Giovanni (“Dio è favorevole”). Il sacerdote osservò che l’età sua e della moglie pareva porre un ostacolo alla credibilità delle parole del celeste messaggero e chiese un segno di conferma: “Ed ecco, sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno” - disse l’angelo - perché non hai creduto alle mie parole, le quali si adempiranno a loro tempo”.

  All’uscita di Zaccaria (quadro 2) il popolo, già in pensiero per la sua prolungata permanenza davanti al Santo dei Santi, capì che era successo qualcosa: “Faceva dei cenni e restava muto”, mentre tutti si aspettavano la solenne benedizione.

 


  Nella scena successiva (quadro 3) vediamo il ritorni di Zaccaria a casa; abbraccia la moglie Elisabetta la quale “dopo quei giorni (…) concepì e si tenne nascosta cinque mesi”.

  Al sesto mese (quadro 4) la venne a trovare la cugina Maria, che anche lei aveva ricevuto la visita dell’angelo, ben più importante di quella fatta a Zaccaria.

  Mentre l’incontro tra Zaccaria ed Elisabetta si svolge, ovviamente, nell’intimità delle pareti domestiche, quello tra Maria ed Elisabetta pare assumere una dimensione pubblica. E anche se la scena è impaginata in modo semplice e simmetrico, tenendo sott’occhio il Vangelo (Luca 1, 39-56) possiamo immaginare di udire le parole cariche di fede e di poesia che le due donne si stanno scambiando.

  Il 5º quadro poteva rappresentare la Natività di Giovanni Battista, mentre nel 6º è raffigurata la sua circoncisione. I parenti volevano chiamare il bimbo col nome del padre, ma la madre intervenne, esprimendosi per Giovanni. La parola risolutiva fu scritta da Zaccaria che è raffigurato proprio mentre scrive il nome indicatogli dall’angelo: “ in quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio”.

  Nella scena successiva il santo è chiamato da un angelo ad uscire dallacittàe a farsi“vox clamantis in deserto”,vocediunoche grida nel deserto: “Preparate la via del Signore!” (Luca 3, 4-6). Giovanni, dice Matteo (3,4) “portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano locuste e miele selvatico”.

  In verità, il bel giovane che vediamo nell’affresco ha ben poco del corrucciato profeta che emerge dal Vangelo; si avvicina di più alla descrizione matteana la statuetta in cotto del santo che si trova nella lunetta sopra la porta d’ingresso, in cui è meglio rappresentato il suo rustico abito e lo zelo traspare dal suo volto.

  Predicava in termini perentori (quadro 8) la conversione, rappresentata dal battesimo nel Giordano: i suoi ascoltatori, in abito da gentiluomini quattrocenteschi, non paiono tuttavia granchè risentiti di sentirsi dare della “razza di vipere!” (Luca 3,7). Che ipocriti, osserva Giovanni.

  Non è l’appartenenza etnica al popolo di Dio che garantisce la salvezza, bensì la conversione interiore, Dio infatti “può far nascere figli di Abramo anche da questa pietre!”.

  Non a caso, nell’affresco, il Battista indica verso terra, la quale tuttavia è un uniforme manto erboso.

  Pietre comunque appaiono numerose nei quadri 9 e 10; il 9º, purtroppo assai deteriorato, dovrebbe essere un’altra scena di predicazione; alle folle che lo interrogavano Giovanni suggeriva di comportarsi secondo giustizia e carità e attendere colui del quale egli non era “degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali”.

  Questi arriva nel quadro 11: è Gesù, il “figlio prediletto” nel quale Dio si è compiaciuto. Le parole che si odono nel cielo (Matteo 3,17), una citazione del profeta Isaia, dovrebbero essere rappresentate dal cartiglio retto dal Battista.

  Segue il battesimo di Cristo nel Giordano, dopo il quale la parabola esistenziale di Giovanni volge al suo declino a causa dell’odio nutrito nei suoi confronti da Erodiade, femme fatale della corrotta corte del tetrarca di Galilea, Erode Antipa. Questi l’aveva sottratta a un suo fratellastro, che già aveva un rapporto ambiguo con lei visto che, come Antipa, ne era zio.

  Lo storico Giuseppe Flavio la chiama Salomè, nome rimasto ad indicare, non a caso, una donna che, diciamo, non si fa pregare. In effetti, narra lo storico ebreo, la nipote-moglie del tetrarca era donna lussuriosa e ambiziosa, che per la continue filippiche del Battista ad Erode “Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello” (quadro 12) ne desiderava la morte.

  Erode tuttavia era meno risoluto.

.  Da una parte temeva le proteste popolari di fronte a questo delitto di stato e dall'altra parte aveva rispetto per la rettitudine di Giovanni e, pur perplesso “lo ascoltava volentieri” (Marco 6,17-29).

  Lo fece comunque segregare nella fortezza di Macheronte, dove poteva continuare a ricevere i suoi discepoli.

  Nel quadro 13 è rappresentata una di queste visite, culmine della vicenda spirituale di Giovanni, e di ogni pio ebreo dell’epoca, di fronte a Gesù; egli riteneva che il Messia sarebbe stato un nuovo re Davide, venuto a liberare il suo popolo.

  Ma non gli arrivava nessuna notizia di questo tipo.

  Preoccupato, mandò due discepoli (quelli nel quadro) a chiedere a Gesù, che sul Giordano aveva riconosciuto come Messia, se egli fosse veramente l’Atteso. La risposta non poteva che essere affermativa: anche Giovanni, per capire il “vero” Cristo, doveva convertirsi (Matteo 11,2-6).

  La debolezza di Erode tradì il Battista.

  Durante la festa di compleanno del tetrarca la figlia di Erodiade danzò in modo tanto seducente, che il

patrigno le promise in regalo tutto ciò che avesse voluto: la giovane, sobillata dalla madre, chiese la testa del profeta incarcerato. “Il re diventò triste”, ma non potè tornare sulla parola data.La decapitazione (quadro 14) è eseguita da un soldato con un lungo spadone, nobilissimo nel suo gesto e con le gambe coperte da una preziosa calzamaglia maculata. Nel quadro 15 la testa del profeta è portata ai regnanti durante il banchetto; nell’ultimo quadro, anch’esso gravemente compromesso, è leggibile la sepoltura del santo.Al centro della scena si intravede un sarcofago, su cui è appoggiata, la testa tra le braccia, una figura femminile in ginocchio. Questa scena di sepoltura ci introduce al grandioso affresco della parete di fondo, che rappresenta il Giudizio Universale. Il tema era usualmente collocato in questa posizione perché servisse da ammonimento ai fedeli in uscita dalla chiesa. La scena è apocalittica.

  “Giorno dell’ira, quel giorno / Dissolverà i secoli nelle fiamme / Lo testimonieranno Davidee la Sibilla


cantava la Sequenza dei morti, meglio note come Dies Irae. Sopra la porta, Dio giudice, sovrastato dai quattro angeli la cui tromba “costringerà tutti davanti al Trono”. Primo passo: la resurrezione dei morti alla sinistra della porta; essi escono dai sepolcri fiduciosi e timorosi “La Morte e la Natura stupiranno /Quando risorgeranno le creature / per rispondere al Giudice. / Quando questi si sarà seduto / Tutto ciò che è nascosto apparirà / Nulla rimarrà invendicato. / Che cosa dirò allora io misero, / Chi chiamerò a mia difesa, / Se a stento il giusto ha fiducia di salvarsi? ”La traduzione, come spesso capita, non rende giustizia alla maestà tremenda dei versi latini, portata al sublime dalla musica di Mozart.Alla destra di Dio: i salvati, raccolti in una composta processione in cui si vedono prelati, un Papa, delle monache, dei gentiluomini.

  Alla sinistra di Dio: i sommersi, i maledicti. Gli angeli, spada alla mano, li spingono verso il basso. Un uomo è strozzato da un mostruoso demonio che lo tira per i capelli, mentre una donna (pare) davanti a lui chiederebbe misericordia, a mani aperte, ma è spinta verso il basso dalla spada dell’altro angelo; in mezzo al sabba eterno doveva trovarsi l’immagine, descritta dai visitatori ottocenteschi, di un contadino con in mano una gallina: ciò che per il tribunale divino (o per quello del sciur Paolo Mantegazza?) gli aveva meritato l’inferno.Ammoniti da questi salutari precetti, passiamo a considerare la più rassicurante Annunciazione dipinta sulla parete in cui si apre un piccolo presbiterio. Di essa si distingue soltanto, a sinistra, l’Arcangelo Gabriele, mentre la parte destra, con la Vergine, è perduta.

  Al centro è raffigurato Dio in atto di benedicente, inserito in una nuvola nella quale si distingue la selva di aureole della corte celeste. Oltre alla Vergine, sempre a destra dell’osservatore, è perduta la parte interna dell’arco d’ingresso al presbiterio; alla sinistra si distingue invece un vescovo, un uomo dalla testa coronata, un altro con in mano un libro e sulla testa uno strano copricapo (o delle corna?). Proprio questi personaggi permetterebbero di ipotizzare il programma iconografico della nostra decorazione, ossia l’esaltazione delle testimonianze della venuta di Cristo, e in particolare dell’ultima, quella di Giovanni Battista. Il personaggio con la testa coronata potrebbe essere il re Davide, mentre l’uomo con le corna potrebbe essere Mosè, oltretutto ritenuto anticamente l’autore del Pentateuco. Entrambi rappresenterebbero la tradizione profetica, completata appunta da Giovanni; seguono, nella parte più importante della chiesa, l’Annunciazione ed altri episodi centrali della vita del Messia.

  Nella volta del presbiterio si trovano i custodi nel tempo del messaggio profetico concretizzatosi in Cristo, ossia i Padri della chiesa occidentale, campioni della Tradizion..

  Ribadiamo che questa è un’ipotesi di lavoro, che ci auguriamo possa essere sviluppata, magari correta da qualche esperto di iconografia.Ciò non toglie che si possa continuare a descrivere ciò che si presenta sotto ai nostri occhi, partendo proprio dai magnifici Padri. In senso orario, troviamo per primo Sant’Ambrogio di Milano il quale, rivestito dei paramenti vescovili, è intento a scrivere; al suo tavolo è appeso uno strano oggetto (lo staffile?). Si vede poi Sant’Agostino, il celebre autore delle Confessionese del Decivitete Dei, vestito del nero abito dei monaci che da lui presero il nome, con in capo la mitra di vescovo d’Ippona. Dirimpetto a Sant’Ambrogio compare San Gerolamo, in abito cardinalizio, traduttore della Bibbia in quella versione latina detta Vulgata, che restò la versione delle Scritture nella chiesa cattolica; non a caso, in quanto traduttore, appare circondato da libri.

  Ultimo è San Gregorio Magno, Papa (indossa la tiara) raffigurato mentre una colomba (lo Spirito Santo) gli sta suggerendo cosa scrivere. Passando alle pareti, potrebbe destare perplessità, in un programma quale quello ipotizzato, il fatto che a sinistra troviamo raffigurata non la Natività, bensì l’Adorazione dei Magi. La spiegazione, in ogni caso, pare debba riferirsi al grande favore che nei secoli passati godette, a Milano, il culto dei tre astronomi orientali.Le loro reliquie, infatti, vennero portate nella (futura) città ambrosiana dal vescovo Eustorgio, e vi rimasero fino al 1164, quando l’arcivescovo di Colonia, Rainaldo Di Dassel, ottenne dal Barbarossa di poterle traslare nella sua città; nelle campagne, specie nella pieve di Dairago che l’imperatore aveva infeudato al prelato, il loro culto restò vivissimo.

  Nell’affresco notiamo in particolare la stella e il tema del sorgere del sole, allusione al celebre cantico maeesianico di Zaccaria (Lc. 1,68-79). In posizione defilata compare San Giuseppe, il cui volto, a confronto dell’aspetto stereotipato di tutti gli altri personaggi, è di una vitalità stupefacente, da far pensare che possa essere un ritratto, magari dello stesso pittore. La Crocifissione ha chiaramente il suo fulcro nel Cristo crocifisso il quale, filologicamente (e audacemente) è nudo, come nudo appare nella scena del Battesimo nel Giordano. Unica nella pittura a non indossare panni anticheggianti è la figura inginocchiata alla destra del Crocifisso: in essa gli studiosi ottocenteschi identificarono Paolo Mantegazza, committente del complesso, il quale doveva allora trovarsi in età matura, visto che sappiamo che morì nel 1492. Lo afferma un graffito inciso sul mantello rosso di uno dei due discepoli di Giovanni nel quadro 13. Nella parete con la finestrella doveva forse trovarsi la Resurrezione, a chiudere l’ipotizzato ciclo.

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