Ancora dopo la guerra ce n’erano, nelle nostre campagne, diverse migliaia. Poi le trasformazioni dell’economia hanno fatto sparire anche i gelsi: è perciò originale e meritoria l’iniziativa di dedicare un monumento a questa pianta, protagonista del mondo contadino dei nostri avi. I quali, tra l’altro, non la chiamavano gelso, bensì murùn, morone, traendo questo termine dal suo nome scientifico, morus alba.
Quanto alle dolcissime more di gelso, anche loro avevano un nome, cioè mucùi, e nella stagione giusta i ragazzi si arrampicavano sugli alberi per riempirsene la bocca.
Lo scopo della coltivazione del morone, tuttavia, era ottenere la foglia, punto nodale del ciclo di produzione della seta. I Romani, che non conoscevano questa tecnologia, importavano a peso d’oro il panno serico dai Cinesi, che chiamavano appunto Seres.
Furono due monaci bizantini, secondo la leggenda, a compiere un atto di spionaggio industriale e a importare materia prima e know how in Europa.
Il baco da seta, prima di trasformarsi in farfalla, si chiude in un bozzolo, costituito da una sua sottilissima secrezione che, opportunamente srotolata e trattata, va a comporre il filo di seta pronto per la tessitura: bisognava chiaramente fermare il processo prima che la crisalide spaccasse il bozzolo per volare via. Durante questo processo biologico il baco doveva essere nutrito e il suo cibo era costituito dalle foglie del gelso, donde la necessità di coltivare la pianta.
Di solito i moroni si trovavano a file all’interno dei campi, alternati ai cereali, e spesso erano usati come appoggio per i telai delle viti. La pianta veniva tagliata opportunamente (capitozzata) per creare in alto il castello, all’interno del quale si potesse cogliere il prezioso alimento. La parte più importante e impegnativa della bachicoltura si svolgeva però in casa.
Damaggiounaddettodelpadrone, il bigaté,distribuiva ibachi a ciascuna famiglia colonica: essi, detti appunto bigàtt, venivano collocati su graticci di legno e vimini (cavalér) nell’ambiente più caldo della casa, che in precedenza veniva anche intonacato e disinfettato per maggior sicurezza dei vermini, divenuti ospiti esigentissimi della famiglia rurale.
Si trattava peraltro di una delle pochissime migliorie che venivano eseguite attorno alle case rurali, paradossalmente per il benessere degli animali...
Essi dovevano essere nutriti, puliti, curati mantenendo costante la temperatura della loro stanza, che così non poteva più essere utilizzata dagli esseri umani: gli animali, oltretutto, emanavano un odore poco gradevole. Giunti a maturazione, essi venivano immersi in acqua calda: la crisalide moriva, mentre con la trattura si ricavava un primo filo.
I fili venivano poi torti, incannati, intrecciati fino ad arrivare alla matassina del prezioso materiale.
Queste operazioni erano piuttosto specializzate e si svolgevano nelle filande; ma fino ad almeno la prima metà del Settecento in genere nelle doti delle fanciulle contadine era sempre presente almeno una bacinella per la trattura e magari un fuso e un telaio per la filatura.
Altrimenti si passava subito la materia prima grezza al proprietario.
Stando ai patti agrari, una percentuale dei bachi prodotti spettava al contadino: dato però il cronico indebitamento di quest’ultimo, i proprietari ritiravano spesso anche la parte colonica dei bachi.
Oppure questa finiva nelle tasche di osti e negozianti, come se si trattasse di denaro: ciò spiega perché molti tavernieri si trasformassero in imprenditori della seta.
Del resto il proverbio diceva “l’ombra del gelso è l’ombra dell’oro”: il mercato della seta ha sempre tirato.
Ma, appunto, la pianta faceva ombra: è chiaro che più foglie ci sono, più bachi vengono nutriti, ma è altresì evidente che più piante ci sono nei campi, più ombra fanno ai cereali in essi coltivati, che così crescono meno, creando problemi di alimentazione e di insolvenza dei canoni di affitto.
Una soluzione fu rappresentata dalla diffusione del mais, dunque della polenta: ma questo è l’argomento di un’altra storia.
|